Da quando un contadino francese (Talon) scoprì come sviluppare la coltivazione dei tartufi, questa specialità agraria ha ovviamente fatto molti progressi, eppure da allora il metodo Talon può ancora riassumersi con il motto “se volete i tartufi seminate le ghiande”. Questa idea è stata sostenuta dalla credenza che le ghiande tartufigene (ovvero quelle raccolte sotto piante di quercia tartufigena) avessero le innate capacità necessarie alla produzione di tartufi. In seguito, però, già dagli inizi del 1800 i micologi sostenevano come le ghiande tartufigene fossero ben diverse dalle comuni ghiande prive invece delle caratteristiche necessarie per far crescere tartufi.
Infatti, il metodo Talon ha scarse probabilità di successo, ed è oggi relegato a mera curiosità storica, nonostante alcuni decenni fa fosse ancora abbastanza seguito. Anche raccogliendo ghiande sotto querce tartufigene e seminandole poi con cura in terreni che già dispongono di tartufaie naturali, l’incidenza di crescita e produzione di tartufi rimane estremamente bassa.
Nel 1930, presso la celebre area tartuficola presente nella zona del Furlo (verso Pesaro, in centro Italia), fu sperimentato questo metodo su vasta scala da Francesco Fracolini (noto agrario) in collaborazione con il Corpo Forestale, con l’utilizzo e la seminazione di numerosissime ghiande presupposte tartufigene, importate dalla Francia. Le ghiande diedero vita a circa 4000 piante di cui, tra il 1938 e il 1955, solo 250 diedero il via alla produzione di tartufi. Un misero 6%, per ben 6 ettari di terreno rimboschito (con un raccolto annuo di circa 300 Kg di tartufo).
Per quanto funzionante, il metodo Talon ha un’incidenza di successo davvero troppo bassa per giudicarlo fruttuoso ai nostri tempi. La sua fama (ottenuta soprattutto in Francia) deriva infatti sia dall’essere stato il primo metodo utilizzato, ma soprattutto dal buon reddito finanziario che forniva in quei tempi di condizioni economiche scarse per la popolazione, nonostante il prodotto fosse sempre oggettivamente modesto. Inoltre, utilizzando aree molto vaste per la tartuficoltura, si finiva sempre per calcolare la produttività finale complessiva e non la resa delle singoli superficie: un approccio che oggi sarebbe fortemente errato per chiunque voglia investire (e avere quindi reddito) in un qualsiasi settore agro-forestale.
Già dagli anni ’60, grazie anche all’influenza di Mannozzi-torini, la coltivazione dei tartufi avviene per mezzo di piantine micorrizate in laboratorio ed allevate in serra, in grado di garantire un ottimo margine di successo al coltivatore (ma portando a un aumento dei costi di produzione).